Jobar è uno dei tanti quartieri periferici di Damasco, un luogo come tanti altri in questa città, dove nulla sembra essere diverso: i soliti palazzi grigi, i taxi che sfrecciano senza regole, i caffè affollati…a rendere però questa parte della capitale diversa da tutte le altre è ciò che in realtà risulta quasi banale associare alla Siria: la guerra. La tranquillità del centro storico con le sue chiese, i suoi splendidi palazzi, le vie silenziose che la sera si animano con la musica dei tanti locali notturni, distraggono facilmente chi visita Damasco da ogni cattivo pensiero legato al conflitto, se non fosse proprio per questo quartiere chiamato Jobar, la spina nel fianco della città.
La distanza da Bab Touma (centro storico) al fronte con i terroristi è di circa un chilometro e mezzo: è la distanza che traccia il confine tra il vivere in pace e le vessazioni quotidiane della guerra, tra il sentire i rintocchi delle campane e il boato delle esplosioni. Qui ogni giorno piovono mortai, tanti mortai e gli abitanti convivono con i rumoracci dei colpi di arma da fuoco da mattina a sera. La tregua arriva solo al calar del sole, quando i gruppi armati smettono di sparare per evitare di essere intercettati dai governativi.
I palazzi occupati dall’esercito sono quelli che un tempo erano abitati dai cittadini del quartiere ed è questo a rendere tutto più complicato: “I nostri vicini sono civili. Se ce ne andassimo i terroristi arriverebbero subito qui ed entrerebbero nelle loro case”, ci spiega uno dei giovani militari in servizio a Jobar e l’espressione “vicini di casa” non è per nulla un’esagerazione: c’è chi stende i panni proprio di fronte al palazzo abitato dai soldati e i colpi dei mortai rimbombano nelle loro case quotidianamente, utili a ricordargli, come se mai ce ne fosse bisogno, che vivono in guerra, anche se ad un passo dalla pace.
“I gruppi armati scavano tunnel sotterranei e poi li riempiono di esplosivi. Abbiamo rintracciato scavi fino a sotto le nostre postazioni. Si muovono sotto terra, è difficile vederli apparire dal sottosuolo”. Ci spiega il comandante in servizio in un ex ospedale in costruzione, oggi diventato la linea di fronte. L’ufficiale ci porta a visitare i vari piani del palazzo: ogni stanza è occupata da militari che senza sosta controllano il territorio di fronte. Uno sguardo oltre i sacchi di protezione per ammirare la Jobar “abitata” dagli insorti, una città fantasma da film dell’horror: strade deserte, lampioni della luce per terra, crateri ogni dove e scheletri di cemento delle vecchie abitazioni.
Come è normale che sia anche in questo quartiere ci sono scuole e ospedali, i quali però a differenza che in altre zone della città, hanno dovuto prendere precauzioni per evitare stragi: sacchi pieni di sabbia fanno da scudo alle finestre e alti recinti in filo spinato con guardie all’ingresso impediscono agli sconosciuti di avvicinarsi. “Non abbiamo paura e non abbiamo nessuna intenzione di andare via di qui” ci dice un abitante del quartiere, “i terroristi non devono cambiare le nostre abitudini”.
Abitudini a cui in effetti la città non sembra volere rinunciare, neppure di questi tempi. Nessuno sembra infatti essere infastidito dalle luci delle decorazioni natalizie. Giovani ragazze con il velo si scattano selfie davanti agli alberi addobbati e alle luminarie nei giardini pubblici. Nessuno sembra voglia rompere il bel periodo di quiete o sembra volersi prendere la briga di fare polemica sull’opportunità o meno di decorare le vie pubbliche. In quasi tutti i negozi c’è un presepe o un abete illuminato, a ricordare che è festa e ad aiutare a chiunque passi a dimenticare anche solo per un attimo che la guerra è a pochi passi.